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Mercoledì, 24 Aprile, 2024

Bombassei: i dieci punti per la mia Confindustria

Notizia del 17/01/2012

Ecco i dieci punti del programma con cui Alberto Bombassei,vice presidente per le Relazioni industriali di Confindustria, si candida alla guida dell'associazione degli industriali. Il documento è stato mandato ai membri di giunta e ai presidenti delle associazioni di Confindustria.

«Da tempo e in molti, ci interroghiamo se una grande nazione europea, come l’Italia, può continuare a cullarsi nella continuità, mentre il mondo cambia con una velocità vertiginosa. Chi come noi si confronta ogni giorno con le dinamiche internazionali sa che la risposta è no. Ebbene, il problema del nostro Paese è oggi racchiuso proprio in questa negazione. In altri termini, nello stato d’animo degli italiani è assente quella forza che – nonostante il rallentamento in corso – trainerà l’economia globale fuori dalla crisi. Mi riferisco all’energia di milioni di persone – in gran parte giovani – che in molte parti del mondo vedono nella trasformazione in corso la possibilità di costruirsi una migliore prospettiva di vita.

I fatti parlano chiaro: davanti a noi abbiamo non solo nazioni grandi come continenti che si affacciano sulla scena dell’economia globale, ma anche la più rapida rivoluzione tecnologica della storia dell’umanità. Un processo che ridisegna le mappe mondiali delle competenze e della ricchezza. Il nostro Paese subisce questo stato di cose stordito dal debito, dai suoi troppi ritardi e da una società che, nel suo complesso, appare refrattaria all’innovazione sia essa economica, sociale e culturale. Viene naturale confrontarci con la Germania, vale a dire il Paese con cui condividiamo la leadership industriale in Europa. I tedeschi, grazie a 15 anni di continue riforme, sono riusciti ad abbattere la loro spesa pubblica di ben dieci punti fino a raggiungere il 44% del Prodotto interno lordo. Per non considerare, poi, il pragmatismo con cui le aziende tedesche hanno superato i vincoli che rendevano poco flessibile il loro mercato del lavoro archiviando definitivamente rigidità ideologiche e difese di vecchi diritti. E noi? Negli ultimi dieci anni, mentre i tedeschi compivano il loro miracolo, il nostro Paese ha azzerato il vantaggio finanziario dell’euro aumentando di ben sei punti la spesa pubblica che ha così superato il 52% del Pil. Il risultato è noto: oggi non solo dobbiamo salvare l’Italia, ma siamo obbligati a far crescere la sua produttività e, con essa, la sua economia, semplificando ed ammodernando nello stesso tempo tutto il suo sistema sociale, giuridico e burocratico.

Dopo decenni di “prediche inutili” gli italiani stanno dolorosamente iniziando a comprendere che il loro Paese è un malato molto grave. Di fronte a una patologia la diagnosi è determinante. Proprio per questo voglio dirti le cose senza giri di parole. L’entità del nostro debito pubblico – vale a dire la nostra “malattia” – è il risultato di un processo al quale hanno partecipato, consapevolmente o no, tutte le categorie economiche e sociali nessuna esclusa. Ha contribuito – con grande zelo – un ceto politico che, per decenni, ha intermediato interessi pagando e rimborsandosi a piè di lista. Non sono estranei al “debito” neppure i troppi soggetti della rappresentanza che, avallando questo stato di cose, hanno tratto benefici diretti o indiretti. Nello scorso mese di dicembre il Rapporto del Censis ha fotografato un Paese che avverte la gravità del momento, ma che, nei fatti, non riesce ancora a darsi priorità e obiettivi condivisi, perché sembra anche confuso e demoralizzato. Tutto ciò rimanda, immediatamente, alla questione delle leadership nazionali e locali. La situazione è grave: meccanismi di promozione inceppati, scarsa mobilità sociale, protezionismi e corporativismi, mancanza di senso del bene comune e delle Istituzioni. Sono queste le cause dell’incapacità di produrre nuove leadership. Da troppi anni assistiamo all’intreccio tra scarsa autostima generale e attribuzione a qualcun’altro delle responsabilità dei piccoli o grandi fallimenti. Una rinnovata leadership – prima di tutto politica – è oggi indispensabile per guidare il Paese non solo fuori dalla crisi, ma anche nella nuova dimensione globale che si va delineando.

Una realtà dura e competitiva all’interno della quale operano da tempo le nostre imprese spesso organizzate in distretti e filiere. Una soluzione che ha favorito, nel tempo, non solo la crescita di un numero impressionante di aziende di piccole dimensioni, ma anche un numero consistente di gruppi industriali di medie dimensioni. Imprese, queste ultime, capaci di presidiare nicchie globali e caratterizzate da alti tassi di crescita, solidità finanziaria, crescente internazionalizzazione, capacità innovativa e orientamento al cliente. Io sono certo che nel futuro ciò che conterà per la vita di molte piccole industrie sarà proprio l’appartenenza a una filiera in grado di competere nel mercato mondiale. Se quest’ultima si muove per diventare internazionale al traino delle imprese leader, tutte le aziende che la compongono ne beneficeranno in modo diretto o indiretto. Negli anni a venire la nostra struttura produttiva avrà ancora una centralità nel manifatturiero, ma sarà sicuramente più leggera, con produzioni a maggiore valore aggiunto e una composizione dell’occupazione ad ancora più elevata professionalità. Un sistema industriale nel quale le componenti dell’innovazione, della tecnologia, della logistica, della comunicazione e della presenza sui mercati del mondo diventeranno fondamentali. Tutto ciò significa una cosa sola: la sfida globale impone alle nostre aziende di essere ancora più organizzate, più forti e più “intelligenti”.

Ci troviamo di fronte a obiettivi che richiedono, tra le altre cose, un ruolo attivo del Paese e dei sistemi locali perché la conoscenza – a differenza del capitale o dei beni materiali – è una risorsa sociale. Purtroppo i nostri giovani non vedono più nella “fabbrica” una prospettiva di vita. Va emergendo una generazione sfiduciata, disillusa, che non s'impegna perché non trova sbocchi e non vede per sé un futuro. Da una parte abbiamo imprese che cercano giovani con professionalità che non trovano, dall’altra, scuole che stentano a trovare iscritti per formare le professionalità che servono. Dobbiamo fermare questo circolo vizioso assumendo la cultura tecnica come una vera e propria priorità nazionale, a completamento di tutto il vissuto che ci posizioni nel mondo quale nazione con il primato nella cultura e nell’arte dell’Occidente. Dobbiamo farlo ricordandoci che non esistono modelli internazionali da imitare perché solo in Italia l’industria è sinonimo di una sterminata moltitudine di aziende di ogni dimensione. In questa prospettiva l’associazionismo rappresenta, oggi più che mai, un elemento indispensabile perché capace di operare come un vero e proprio soggetto collettivo. Un attore insostituibile non solo per rappresentare le imprese in ogni sede, ma anche per contribuire a organizzarle e sostenerle nel perseguire miglioramenti gestionali, tecnici o commerciali.

Tutto ciò rimanda al ruolo e alle prospettive del nostro sistema associativo. Oggi, Confindustria deve affrontare i problemi che dividono cercando soluzioni condivise. Questo significa non limitarsi a mediare interessi, ma essere capaci di comporre interessi concorrenti. Un esercizio – da declinarsi sul piano locale e nazionale – che impone una rifocalizzazione sulla rappresentanza delle imprese. Un’esigenza ancora più sentita se consideriamo che gli interessi da rappresentare sono e saranno sempre meno uniformi. Mi riferisco a realtà economiche che spaziano dal manifatturiero ai grandi servizi a rete, all’industria dei servizi in tutte le sue declinazioni. Universi con esigenze diverse: chi esporta e chi no; chi compete sui mercati internazionali e chi nel solo mercato interno; chi opera nel Mezzogiorno e chi nel Nord; chi ha piccole dimensioni e chi è medio - grande.

Le relazioni industriali rappresentano efficacemente il pluralismo al quale ho fatto riferimento. Negli ultimi anni abbiamo posto le basi per un cambiamento nelle relazioni sindacali che risultava urgente e che l’evoluzione delle vicende economiche hanno rivelato indispensabile. Con la riforma della contrattazione del 2009 abbiamo concordato lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro, come ci veniva sollecitato dalle autorità europee, ed affermata la possibilità di derogare al contratto nazionale attraverso specifici accordi fra le parti realizzati in azienda. Con l’accordo dello scorso 28 giugno, poi, abbiamo completato il quadro rendendo vincolanti, per tutti i lavoratori e i sindacati, gli accordi aziendali raggiunti con la maggioranza dei consensi dei rappresentanti dei lavoratori. In altre parole, abbiamo dato maggior capacità d’intervento e certezza agli accordi aziendali che intendono derogare ai vincoli presenti nei contratti nazionali. Oggi, solamente le aziende associate a Confindustria possono far riferimento a un quadro di regole per la contrattazione collettiva aziendale e di settore completa e, finalmente, di tipo europeo. Impegno primario della prossima presidenza confindustriale sarà quello di riuscire a dare alle imprese di ogni dimensione e settore, una “scatola degli attrezzi” – costruita a livello interconfederale – dalla quale ogni azienda possa scegliere il modello di contrattazione più coerente con le proprie esigenze. A questo proposito sono convinto che sia sbagliato ritenere che per avere libertà di decisione nei rapporti di lavoro sia meglio non essere associati a Confindustria. Semmai è vero proprio il contrario. Appartenere a Confindustria significa disporre di un ulteriore valore aggiunto a disposizione dell’impresa. Credo sia nota la mia posizione riferita al mondo del lavoro: affrontare il rinnovamento delle relazioni sindacali e delle regole per la contrattazione significa essere pronti ad affrontare e superare resistenze e rifiuti. Lo stato delle cose non ci consente di stare fermi, subire veti, temere l’impopolarità e conservare l’esistente. Ricordiamoci e ricordiamolo a tutti che il lavoro è elemento centrale nella vita di ciascuno, è parte sostanziale della realizzazione del singolo come persona e come cittadino. Dobbiamo andare avanti perché sul piano delle relazioni sindacali e delle regole per la contrattazione collettiva, possiamo e dobbiamo migliorare.

Per farlo dobbiamo rispettare una precondizione irrinunciabile: raccogliere il consenso reale e convinto delle imprese e degli imprenditori associati. In assenza di questo corriamo seriamente il rischio di scrivere accordi condannati a restare sulla carta. Nei molti anni di impegno associativo ho sempre rifuggito la politica degli annunci o le soluzioni buone solo per la stampa. Non mi è costato fatica perché nella mia lunga militanza imprenditoriale ho cercato – ogni giorno – non solo di fare qualche cosa di nuovo, ma anche e soprattutto, di realizzare qualche cosa di buono, duraturo e capace di contribuire a costruire il futuro. Così è stato, a maggior ragione, nella mia attività associativa dove la presenza di sensibilità ed esigenze diverse mi ha imposto di valutare ogni possibile effetto delle decisioni assunte a livello nazionale. Non potrebbe essere diverso perché, come ho già ricordato, siamo espressione di una pluralità di imprese e questo rappresenta – si badi bene – un elemento di grande positività. È la nostra identità plurale, infatti, che ci rende antitetici alle devastanti logiche corporative. Questa è, a ben vedere, la nostra “cifra distintiva” rispetto ad altre organizzazioni di rappresentanza. Naturalmente, tutto ciò non vuol dire che abbiamo risolto tutti i nostri problemi, ma che abbiamo dei buoni fondamentali sui quali possiamo avviare un vero e proprio processo di “rifondazione”.

Ho usato intenzionalmente il termine “rifondazione” perché sono convinto che, anche per noi, come per il Paese e i suoi diversi attori sociali, sia giunto il tempo delle scelte. Confindustria nel suo secolo di vita ha saputo affermarsi come una grande e autorevole istituzione economica e sociale. Tuttavia, non possiamo nasconderci che anche noi, come l’intero Paese, siamo invecchiati e sotto molti aspetti rischiamo di non essere più uno tra i principali attori del rinnovamento. Il tramonto delle logiche concertative, la crisi della politica, lo stallo che vive il Paese da troppi decenni, il sopravvivere di logiche profondamente avverse al mercato o, ancora, l’incapacità di attuare riforme. Un quadro di riferimento profondamente negativo del quale, nostro malgrado, siamo parte. Possiamo dirci estranei al progressivo degrado che ha colpito non solo la politica e il suo mezzo milione di addetti, ma anche la società civile italiana? Se è vero che ci siamo posti in prima fila nella lotta per la legalità nelle regioni del Mezzogiorno, è altrettanto vero che in altre realtà abbiamo assistito a un deterioramento della vita associativa. In questi anni mi sono occupato prevalentemente delle questioni di lavoro e sindacali e, tuttavia, ciò non mi ha impedito di cogliere come in troppe associazioni il rinnovo di una presidenza può diventare materia per i probiviri, per azioni legali o per campagne di stampa devastanti per l’immagine del sistema. Il veleno della faziosità politica – che ha squassato il Paese – si è purtroppo infiltrato anche nella nostra vita associativa determinando, in alcuni casi, logiche che non ci appartengono e che dobbiamo energicamente contrastare.

Si va rarefacendo quello spirito di servizio che, un tempo, portava nei nostri organi sociali imprenditori disinteressati, capaci di visioni anche divergenti, ma indispensabili per arricchire il confronto. Si percepisce, al contrario, il rischio che l’impegno associativo rappresenti non un fine in sé, ma il mezzo attraverso il quale costruire veri e propri percorsi di carriera tra la politica, il pubblico e il privato. Non dobbiamo sottovalutare questi rischi. Allo stesso tempo, sono convinto che la nostra Associazione, i suoi vertici e la sua Presidenza debbano mantenere un’assoluta indipendenza dagli schieramenti politici. Un’autonomia antitetica a quel collateralismo che finisce inevitabilmente per soffocare chi lo pratica. Dobbiamo guardarci anche dal rischio di veder banalizzato il nostro ruolo: essere forti, rappresentativi e autorevoli non significa essere citati ogni due ore su una agenzia di stampa. Il rischio è quello di condividere quella sovra-esposizione mediatica che in pochi anni ha contribuito a fare della politica un’inconcludente farsa televisiva.

L’esperienza che ho maturato e, soprattutto, le prospettive di medio - lungo periodo del nostro Paese, mi spingono a proporvi di fare di Confindustria una realtà associativa più efficiente, più dinamica e in grado di cogliere in modo tempestivo le esigenze delle imprese. Ciò significa organizzarsi per riuscire a reagire in anticipo rispetto alla domanda. Per farlo Confindustria deve essere ancora più professionale, meno burocratica, austera e autorevole. Dobbiamo potenziare la struttura di Viale dell’Astronomia valorizzando le migliori risorse disponibili e inserendone di nuove, giovani e di alto profilo, attingendo ai talenti disponibili nel sistema e nel Paese. Il processo di risanamento e modernizzazione dell’Italia conferisce un ruolo ancor più significativo al Centro Studi che dobbiamo ulteriormente sostenere e sviluppare. È poi indispensabile valorizzare il Gruppo Giovani e il Comitato Piccola Impresa. Un obiettivo che comporta la revisione del loro ruolo e della loro autonomia anche attraverso l’attribuzione di importanti deleghe specifiche. Dobbiamo diventare più efficaci sui temi delle infrastrutture materiali e immateriali. Dobbiamo farlo in ottica europea, nazionale, sovraregionale e d’area vasta. È indispensabile un impegno maggiore per rappresentare le imprese italiane in Europa dove le nostre esigenze si scontrano con interessi diversi e spesso divergenti. L’interesse delle nostre aziende si fa sempre di più in Europa dove, purtroppo, l’Italia non riesce a far valere il proprio “peso”. Dobbiamo recuperare il tempo e la credibilità perduti. Confindustria deve assicurare un presidio straordinario e autorevole sui dossier all’attenzione comunitaria. Non solo, dobbiamo ossessivamente guardare al di fuori del nostro Paese. Un orientamento che comprende anche l’obiettivo di internazionalizzazione del nostro sistema produttivo da cui dipende, in ultima analisi, il futuro dell’Italia. Confindustria deve battersi con maggior energia per far sì che il supporto pubblico in favore della internazionalizzazione diventi più forte e più efficace. Un ambito nel quale dobbiamo e possiamo migliorare ulteriormente i nostri servizi associativi siano essi nazionali o locali. Il programma della nuova presidenza deve prevedere un programma quadriennale per l’internazionalizzazione condiviso con il Governo ed esteso agli altri attori economici e finanziari del Paese. In tale prospettiva si rende indispensabile un rinnovato approccio operativo che richiede, tra le altre cose, il ripensamento delle nostre formule organizzative. Ad esempio, dobbiamo rifocalizzarci su Ricerca ed Innovazione integrando questo tema con Ambiente ed Energia. Non solo, è indispensabile riportare a sistema asset strategici come l’Università LUISS e il gruppo editoriale de “Il Sole 24 Ore”, rinsaldandone le relazioni con la più ampia attività di Confindustria. Un’attenzione particolare deve essere posta anche nei confronti del Mezzogiorno. Una scelta ineludibile per dare un futuro a milioni di italiani, contribuendo, nello stesso tempo, al risanamento e al rilancio del Paese. In tale ambito dobbiamo migliorare sensibilmente la nostra capacità di delineare, proporre e sostenere politiche per aree svantaggiate come accade negli altri Paesi europei. Per favorire questo approccio è indispensabile creare, al nostro interno, un legame organizzativo tra chi ha la responsabilità della Politica industriale e chi rappresenta il Mezzogiorno.

Le considerazioni che ho sin qui prospettato concorrono a definire quel processo di “rifondazione” del nostro sistema cui ho fatto riferimento. A questo proposito sono ben consapevole che ogni cambiamento dipende – in ultima analisi – dagli imprenditori associati e da chi, come te, ne assume la rappresentanza a livello territoriale, regionale e di categoria. Mi riferisco a imprenditori che conosco e che convengono sulla eccessiva frammentazione del nostro sistema. Le cifre sono eloquenti: 18 Confindustrie Regionali; 100 Territoriali; 25 Federazioni di Settore, 2 Federazioni di scopo, 101 Associazioni di Categoria, 21 Soci aggregati. In tutto 267 organizzazioni associate. Un dato che pone più di un interrogativo. Questa straordinaria articolazione organizzativa riesce ad esprimere per intero il suo potenziale? Come e perché siamo arrivati a 267 organizzazioni associate? Per semplificare da dove vogliamo o possiamo iniziare? Non è questa la sede per dare risposte, ma i tempi sono maturi per decidere che la semplificazione del sistema entri, con priorità, nell’agenda della prossima presidenza. Dobbiamo farlo tenendo presente che – negli anni passati – alcuni seri tentativi di riforma si sono arenati. Se su un tema come questo dovesse prevalere un consenso passivo, vale a dire privo di concreta volontà di cambiamento, condanneremmo Confindustria a un lento ma inesorabile declino. Per contribuire a scongiurare questa eventualità ti invito a contribuire con idee e proposte. Dobbiamo, in tempi molto stretti, immaginare un modello organizzativo “snello”. Una soluzione che possa finalmente essere presentata anche in inglese ai colleghi delle altre Associazioni europee avendo la certezza di essere compresi al contrario di quanto avviene oggi. Dobbiamo farlo perché viviamo tempi straordinari che non richiedono solo una buona gestione, ma una radicale capacità di rinnovamento. Di fronte a noi abbiamo quattro anni pieni di incognite. Quella più rilevante da oggi al 2016 è la verifica del modello di sviluppo del Paese e le decisioni che ne conseguiranno».

Fonte: Alberto Bombassei su Corriere.it

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