Il Made in Italy è ammalato, si può curare?
Il modo sbagliato per affrontare la crisi è pensare che sia arrivata nel 2008, per via delle ripercussioni sull’economia e sul lavoro della situazione finanziaria mondiale. È una litania recitata a sproposito, che il governo Monti sembra non pronunciare. A ragion veduta: l’economia italiana è la penultima al mondo per crescita negli ultimi dieci anni, mentre nei vent’anni trascorsi il nostro sistema economico è cresciuto la metà degli altri paesi occidentali. Un rallentamento vistoso e progressivo, che la crisi finanziaria globale ha semplicemente reso ancora più evidente, mostrando come l’inadeguatezza della nostra classe politica si sia accompagnata anche a scelte sbagliate di molte banche ed imprese italiane.
Il Made in Italy è malato da tempo, colpito da un tumore che ha aggredito le basi del nostro saper fare e della capacità competitiva del sistema delle imprese. Andare all’origine, conoscere le cause del morbo che impedisce la crescita è fondamentale: non c’è crescita possibile senza la ripresa delle nostre attività produttive sul mercato.
I dati regionali relativi agli aspetti della competitività e dei fattori di innovazione ci spiegano molti dei fenomeni all’origine della crisi. La capacità innovativa è indice dello stato di salute di una economia e mostra quindi come e dove siano individuabili gli aspetti di forza e debolezza delle nostre economie territoriali. I report europei segnalano come l’Italia si presenti ancora in condizioni abbastanza buone negli indicatori che riguardano la tenuta finanziaria delle imprese, le politiche di sostegno e nell’area relativa alle potenzialità economiche del mercato. L’Italia resta ancora nei suoi fondamentali un paese in grado di generare ricchezza, anche se meno che nel passato, non per effetto della crisi, ma per l’indebolimento della capacità di innovazione. Su questo le rilevazioni economiche sono impietose e mostrano la nostra progressiva perdita di anticorpi di questi anni.
L’Italia è infatti sempre più debole nelle risorse umane, negli investimenti aziendali, nel sistema delle reti, nell’imprenditorialità, nei fattori innovativi. L’Italia non è più un paese in grado di generare lavoro di qualità, rispetto a quanto siamo stati in grado di fare nel nostro recente passato.
La crisi del 2008 non ha fatto che accentuare questi fenomeni.
I dati ci dicono che l’Italia negli ultimi dieci anni, rispetto agli altri paesi occidentali, ha investito poco e male proprio sugli elementi di fondo della capacità competitiva. Siamo al sedicesimo posto in Europa per innovazione e ricerca, mentre sulla formazione, l’istruzione ed il funzionamento del mercato del lavoro siamo addirittura precipitati secondo l’Ocse al ventiquattresimo posto sui ventisette paesi dell’Unione Europea. Il declassamento della nostra solidità finanziaria delle agenzie di rating si è quindi semplicemente allineato al declassamento della nostra posizione rispetto ai fondamentali dell’economia reale, che non riguardano tanto gli aspetti finanziari, ma la capacità d’agire, la formazione, la ricerca, il lavoro, la qualità dei servizi.
È quindi piuttosto paradossale che nel paese del Made in Italy faccia più notizia il rating finanziario che il livello della nostra competitività. Eppure le basi della nostra economia, su cui intervenire per stimolare la crescita riguardano proprio il “saper fare”, come aggiornare ed innovare le nostre competenze ed i nostri prodotti, per crescere sul mercato. Sono competenze e conoscenze che spesso riguardano le vocazioni produttive dei nostri territori e che si sono sviluppate a volte durante secoli. Alimentare la nostra cultura del lavoro significa intervenire per aggiornare saperi spesso antichi, attraverso tecnologia, marketing e ricerca.
Il declino di questi anni è legato all’indebolimento delle reti di impresa, dei distretti specializzati del Made in Italy. Dieci anni fa i sistemi distrettuali, nelle diverse forme di aggregazione, erano circa duecento, oggi sono intorno ai centoquaranta. Se le reti delle nostre piccole imprese si sono indebolite è anche perché spesso operano come fornitrici di grandi marchi, la cui politica negli anni scorsi è stata spesso legata più ad obiettivi speculativi che al rafforzamento delle proprie posizioni di mercato.
Con le grandi imprese a capo della filiera produttiva poco impegnate ad investire sui prodotti e sul capitale umano, le reti di piccole imprese e dell’artigianato di qualità si sono trovate spesso sole, a dover reinventare il proprio mercato. Senza politiche di sviluppo e sistemi territoriali organizzati non è però facile per le nostre piccole imprese emergere e competere da sole, mentre le grandi imprese delocalizzano ed operano con più attenzione al mercato finanziario che a quello del prodotto.
È quello che è accaduto in parte al sistema moda: mentre le grandi famiglie proprietarie agivano e compravano nella privatizzazione degli ex monopoli pubblici, altrove gli imprenditori continuavano soprattutto a far bene il loro mestiere, togliendo ingenti quote di mercato a chi intanto aveva altri obiettivi.
È il caso di Amajo Ortega, schivo industriale tessile spagnolo, che proprio mentre i protagonisti del tessile italiano entravano in crisi, è diventato l’uomo più ricco d’Europa, vendendo prodotti con marchi (come Zara, Massimo Dutti, Stradivarius) e soprattutto un design che richiamano proprio lo stile italiano. L’inizio della crisi del sistema dei grandi marchi è iniziato proprio quando i nostri imprenditori leader hanno incominciato a spendere i guadagni non per tenere le posizioni sul mercato, ma per far incetta di beni pubblici ed entrare nel gotha finanziario.
Familismo e speculazione hanno portato alle note vicende degli ultimi anni, con grandi imprenditori in carcere per crack finanziario e tanti marchi importanti ceduti all’estero. Da Gucci a Brioni: il fatto che il Made in Italy diventi Made in France smentisce l’assunto che sia solo un problema di concorrenza con la Cina o con il terzo mondo ed evidenzia l’inadeguatezza del sistema familiare che regge le sorti della nostra economia. In molti casi la delocalizzazione all’estero è solo l’anticamera del fallimento di imprese che non sono riuscite a reggere sulla sfida della qualità, perché non hanno investito.
Il livello di investimento medio delle imprese italiane per ricerca ed innovazione tecnologica è tra i più bassi d’Europa: questo spiega le ragioni della difficoltà di molte aziende, chiamate a competere per prodotti di basso livello con paesi in cui il costo del lavoro è molto inferiore al nostro. La competizione al ribasso è una sfida in cui siamo destinati a soccombere.
Una ricerca dell’Università Bocconi (pubblicata nel libro Classe dirigente di Boeri, Merlo e Prat) chiarisce il motivo di queste scelte: la logica del capitalismo familiare italiano funziona proprio come la nostra politica ed è intrisa di cortigianeria, si valorizzano i manager non tanto per i risultati, ma per la fedeltà alla famiglia ed all’assetto proprietario.
È quindi possibile ripartire solo se si interviene su alcune questioni di fondo, ricominciando da ciò che nonostante tutto continua a funzionare. In questi anni di disastri, se analizziamo i dati InfoCamere, ci sono circa duemila imprese italiane che hanno comunque continuato a crescere, ad investire e ad assumere. Sono imprese molto diverse tra loro, il denominatore comune sono proprio gli investimenti che hanno fatto in formazione, ricerca, marketing.
Perché questa linea sia seguita dal nostro sistema economico ci sono due “rivoluzioni culturali” che fanno fatte, seguendo l’esempio europeo. Bisogna selezionare e disintermediare.
Le politiche e le risorse devono selezionare e non garantire sempre, comunque e chiunque. Il sistema degli incentivi italiano è al tempo stesso lento, burocratico, ma poco selettivo. Gli incentivi vanno finalizzati: ai progetti, all’innovazione, all’occupazione. Se le istituzioni italiane non erogano servizi mirati, ma alimentano solo burocrazie, è più facile non selezionare: fanno bandi in cui l’agevolazione finisce al primo che arriva allo sportello. È una pratica diffusa e pericolosa, che non valuta il merito e lo sforzo di innovazione delle imprese che andrebbero premiate.
Solo la selezione, in un sistema come il nostro che ha diversi strumenti di incentivazione e di sostegno allo sviluppo, permette infatti all’impresa di finalizzare lo strumento al risultato, evitando per esempio di perpetuare uno dei vizi del nostro sistema di aiuti: utilizzare le agevolazioni per chi assume con lo scopo di abbattere il costo del lavoro, che in Italia è di circa otto volte superiore a quello dei paesi emergenti.
In questo modo è poi possibile disintermediare: attribuire incentivi, servizi e risorse in modo diretto, magari con istituzioni in grado di promuovere sul territorio quei venture capital che in Italia latitano e di cui le nuove generazioni prive di capitale famigliare hanno bisogno per fare impresa.
Ci vuole però competenza ed innovazione anche nelle istituzioni, se vogliamo che questo criterio sia presente nell’economia reale. Cambiare la logica del nostro welfare per il lavoro e delle nostre politiche per lo sviluppo, costruite per alimentare intermediazioni più che per erogare servizi e strumenti al destinatario, è fondamentale per riprendere quella strada del saper fare che il nostro umanesimo ha avviato secoli fa, promuovendo le basi culturali ed economiche di quel sistema che chiamiamo Made in Italy e che il mondo ha spesso ammirato.
Fonte: IlRiformista.it