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2015-01-01

La controriforma europea peggiorerà il nostro vino

C’è una liberalizzazione alle porte che spaventa il made in Italy: riguarda il vino. Arriva da Bruxelles. Cadrà il divieto di impiantare in modo indiscriminato nuovi vigneti in Europa. Una misura che spaventa i Paesi che puntano sulla qualità: Italia e Francia in testa, poi Germania, Spagna e Portogallo e altre dieci nazioni che in questi giorni si stanno mobilitando per evitare lo «stravolgimento del mercato». L’appuntamento è per oggi a Bruxelles, dove si cercherà, coinvolgendo la Polonia, di formare il blocco di maggioranza necessario a cancellare la legge.

Tutto nasce dall’Ocm, l’Organizzazione comune di mercato. Una riforma che ha cambiato l’Europa del vino. Angelo Gaja, l’«ambasciatore» del vino, conosciuto in tutto il mondo con il suo Barbaresco, da tempo ripete che il successo recente dell’export è figlio di quella riforma. Perché ha chiuso l’era dei finanziamenti a pioggia alle cantine mediocri. E ha fatto arrivare i fondi per la promozione (più di 300 milioni per il 2012), incoraggiando la competizione all’estero.

«C’è di più — spiega Stefano Campatelli, direttore del Consorzio del Brunello di Montalcino, che oggi sarà a Bruxelles —. Dal 1987 si potevano piantare nuovi vigneti solo comprando i diritti da altri che li estirpavano, a patto di mantenere o meglio migliorare la qualità. Ma sta per arrivare quasi una controriforma: dal 2016 chiunque potrà mettere a dimora nuove vigne ad esempio anche da noi, a Montalcino. Non sarà Brunello, perché esistono norme regionali che ci proteggono, ma cambierà comunque gli equilibri del mercato».

L’Ocm prevedeva anche un contributo a chi estirpava e non vendeva i diritti di reimpianto. Grazie a ciò le vigne d’Europa si sono ridotti di circa l’11 per cento dal 2008, l’anno di approvazione della riforma. Secondo l’Ismea sono più di 30 mila gli ettari italiani in cui non si coltiva più la vite, su un totale di circa 650 mila. Ma nel frattempo è cresciuta una nuova generazione di vignaioli che si è schierata con i produttori che già comparivano nelle classifiche mondiali. L’Italia del vino è cresciuta: il risultato è un +30% della quota di esportatori, con un export da record storico, 4 miliardi di euro, secondo i dati dell’Istat del mese scorso.

«Questo periodo virtuoso rischia di finire per colpa dell’Europa — spiega Riccardo Ricci Curbastro, presidente dell’Efod, la federazione europea dei vini d’origine e della Federdoc, la federazione italiana dei Consorzi di tutela dei vini —. L’idea è che il mercato si regoli da solo, il modello è quello della legge australiana. Peccato che dopo la liberalizzazione, l’Australia stia ora soffrendo di una grave crisi dovuta alla sovrapproduzione. La liberalizzazione danneggerà soprattutto chi investe sulla qualità: i vignaioli delle zone doc. E provocherà danni anche al territorio. Per fare vino di massa si potranno mettere a dimora vini in pianura mentre finora i produttori doc hanno salvato le colline italiane. Cos’altro si potrebbe coltivare a Montalcino o Conegliano e Valdobbiadene, sui colli del Prosecco, se non le viti?».

L’appuntamento di oggi, secondo Ricci Curbastro, che sarà anche lui a Bruxelles, è decisivo. L’arma è la lettera scritta da Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, con l’appoggio di molti Paesi tra cui l’Italia, per chiedere all’Europa di fare marcia indietro. L’idea è di inserire la norma nel Pac, la legge sulla programmazione agricola comunitaria, in discussione ora.

«Vogliono la libertà di mercato, ma così uccidono la libertà di impresa», chiude Ricci Curbastro.

Lamberto Vallarino Gancia, presidente di Federvini e del Comité européen des entreprises vins che riunisce le imprese del settore, sembra ottimista pensando all’appoggio del governo italiano e di molti nostri eurodeputati, in testa Paolo de Castro, ex ministro e ora presidente della Commissione agricoltura del Parlamento europeo. Che succederà, secondo Gancia, se passa la controriforma?

«Si creeranno disparità tra gli Stati che la rispetteranno e quelli che violeranno la legge. Poi si colpiranno gli investimenti. E infine si danneggerà il territorio, permettendo impianti indiscriminati nelle zone di pianura».

Fonte: Corriere.it

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