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2015-01-01

Made in Italy e il lato oscuro della moda

Sulla fenomenologia del “dietro le quinte” si potrebbero scrivere pagine e pagine. Specialmente se riferito alla moda, un business miliardario che è legato a doppio filo al concetto dell’apparire. Cosa c’è alle spalle delle collezioni sapientemente sistemate nelle vetrine e sugli espositori dei negozi? Cosa dietro quel made in Italy che il nostro Paese vanta come fiore all’occhiello della propria economia?

Un addetto ai lavori, impiegato nel settore commerciale di una grande griffe italiana, ha voluto tracciare i confini di un mondo che attira a sé luci, ma si nutre di ombre, complici laboratori nascosti nell’Europa più profonda e artigiani italiani che si sono visti tagliare i compensi sull’onda della delocalizzazione. Giò Rosi, questo lo pseudonimo dell’autore di “Made in Italy. Il lato oscuro della moda”, pubblicato da Anteprima e in libreria da poche settimane, affronta temi diversi ma egualmente rilevanti – come quello dei diritti dei lavoratori sottomessi all’efficienza economica o quello di una proposta di legge che tutela il made in Italy a spizzichi e bocconi – puntando dritto alla concretezza: dalle pagine del libro escono facce, voci, ambienti.

Ci sono il freddo penetrante e le strade dissestate della Transnistria, feudo, incontrollato e incontrollabile, della malavita russa e non solo, e gli occhi bassi delle operaie che lavorano 12 ore al giorno nella principale fabbrica di Tiraspol, per racimolare 120 dollari al mese: lì i capi delle griffes “Made in Italy” vengono prodotti a 20 euro a pezzo, contro i 50 che sarebbero necessari per poter mantenere la manifattura sul suolo nostrano, spiega Rosi nel libro.

Poi ci sono i bengalesi e i cingalesi che le imprese rumene importano per sopperire all’incremento dei costi del lavoro locale e che conti dormono in fabbrica. Infine, ecco le fabbriche bulgare dove i jeans sabbiati – un trattamento molto pericoloso, specialmente se effettuato da un essere umano – vengono stoccati a migliaia, buttati sui pavimenti sporchi per poi essere rivenduti a centinaia di euro.

Il viaggio di Giò Rosi è lungo e arriva fino all’Italia: al buon esempio di Carmine, che possiede un laboratorio manifatturiero nel leccese e arranca per non chiudere l’azienda lasciando a casa le sue sarte, o Marcella, tarantina, che lavora per l’alta moda non senza difficoltà. Ma anche al cattivo esempio di chi si riempie la bocca con l’importanza del fatto a mano italiano e fa lavorare, di nascosto, i cinesi.

Molto è stato già detto: il Made in Italy è una sorta di vaso di Pandora che a molti non conviene scoperchiare. Ma è anche una risorsa da considerare, specialmente in un momento storico in cui si sta cercando di non cedere alla recessione. Una delle osservazioni più interessanti emerge, tra i vari aneddoti, a metà del volume: «gli stilisti del made in Italy sono costretti a restare in Cina – o all’estero – perchè è impossibile tornare dopo che per vent’anni è stata fatta terra bruciata in Italia» scrive Rosi.

Ha ragione: tornare indietro è difficile. Soprattutto perchè l’estero, con i suoi prezzi iper concorrenziali, si è imposto come arbitro insindacabile: pagamenti anticipati, scelta dei materiali non sempre così ampia come dovrebbe essere, tempi definiti.

Le seconde linee – quelle meno costose, la cui produzione è dislocata per assicurare alle maison margini alti  – stanno vivendo un periodo di crisi: costi eccessivi e qualità non sempre ottimale scongiurano l’acquisto. Conviene delocalizzare in Cina (o in Romania, Bulgaria, Ucraina) e spacciare un prodotto per italiano? Non sempre, non con tutti. L’occhio del cliente in difficoltà per la crisi è spesso una delle leggi più severe.

Fonte: Corriere.it

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