2015-01-01
LA PRATO DI NESI, TRA L'AGONIA E LA CINA NEGLI SCANTINATI
Il giorno in cui vendette l'azienda, a Edoardo Nesi, erede del Lanificio T.O. Nesi & figli Spa, venne in mente una frase di Francis Scott Fitzgerald, pronunciata dall'autore del Grande Gatsby durante la Depressione del '29: "Percio' la lascio, ora, la mia citta' perduta. Non sussurra piu' di fantastici successi ed eterna giovinezza. Tutto e' perso, salvo il ricordo". E' Prato la citta' "perduta" della quale Nesi racconta gli ultimi due decenni. "Storia della mia gente" (Bompiani, 168 pagg, euro) e' un pamphlet-invettiva contro la globalizzazione e ideologia annessa e romanzo di formazione di uno scrittore che fino al 7 settembre 2004, il giorno della firma dal notaio per la compravendita, ha una vita divisa in due.
L'industriale "di provincia" Nesi e lo scrittore Nesi si ricompongono in una scrittura "luddista", rabbiosa e lirica, che ricorda da vicino quel Luciano Bianciardi che nella "Vita agra" vorrebbe fare a pezzi lo scaldabagno, il "boiler", che lo interrompe ogni volta che fa all'amore con la propria donna. Bianciardi si scagliava contro i segni di un miracolo economico che ha fatto la ricchezza di distretti industriali come Prato, e da qui parte oggi, forse tardiva, la rivolta contro l'ultimo stadio della globalizzazione: "...Un incubo distopico", scrive Nesi, "in cui le differenze tra le persone e gli stati...si sarebbero stemperate prima e dissolte poi in una dorata utopia in cui tutti gli abitanti del mondo sarebbero stati cittadini di un unico impero, sedati dalla pubblicita' e imboniti dalla televisione...felici di parlare la stessa lingua senza avere piu' nulla da dire".
Il paragone con Bianciardi finisce qui, toscanita' a parte. Dopo un andirivieni tra l'Italia e l'America, per formarsi e vedere il mondo, Nesi torna nella sua Prato, "una citta' intera che si fonda sul tessile, costellata di decine e decine di aziende come la nostra, tutte in continua crescita" e dove "non bisognava essere un genio per emergere, perche' il sistema funzionava cosi' bene che facevano soldi anche i testoni, purche' si impegnassero; anche i tonti, purche' dedicassero tutta la loro vita al lavoro". Prato, teatro di un capitalismo "quasi morale, per cui gli operai piu' capaci e piu' volenterosi che decidono di mettersi in proprio e diventare imprenditori possono provare a farlo con una certa possibilita' di successo".
"Storia della mia gente" e' la cronaca dell'annichilimento e della sparizione di un universo di creativita' e di rapporti economici e umani sotto il passo schiacciante di una globalizzazione senza freni e senza ritegno, accompagnata da un pensiero unico al quale si sono accodati politici di destra e sinistra ed economisti di fama.
L'invettiva colpisce furiosamente uno di loro, il professor Francesco Giavazzi, "il piu' petulante" e "il piu' acerrimo sostenitore italiano dell'infinita' bonta' della globalizzazione", destinatario di una lettera mai spedita da "Edoardo Nesi, imprenditore in Prato". "Caro Giavazzi", scrive Nesi, "ieri notte ho fatto un sogno. Ero lei, Francesco Giavazzi, e potevo sbeffeggiare dalla prima pagina del 'Corriere' quegli imbecilli degli imprenditori italiani sbranati dai cinesi senza che nessuno alzi un dito per difenderli...".
E' una lettera a Giavazzi, ma anche a Mario Monti, a Vincenzo Visco, e a tutti coloro che "durante gli anni Novanta, subito prima che la Cina entrasse nel WTO e ai suoi prodotti fosse concesso di invadere l'Occidente come un'onda di piena...giravano il mondo sorridenti a firmare accordi che avrebbero minato la prosperita' dell'Italia" e spinti da "un gigantesco complesso d'inferiorita'" che "impedisce ai nostri politici di difendere gli interessi dell'industria manifatturiera e dei milioni di persone" che "ne campano". Prato, in cui vive una delle comunita' di cinesi piu' grandi d'Europa, "ti prende per la collottola e ti infila il muso nel piscio, come facevano i vecchi ai cani che avevano sporcato dove non dovevano sporcare".
E allora un giorno, venduta l'attivita', lo scrittore accompagna la polizia nell'ispezione di uno di quei fetidi scantinati che hanno preso il posto di fabbriche in cui si producevano "i tessuti piu' belli del mondo", e capisce che l'apertura mondiale degli scambi commerciali non ha solo ucciso "il lavoro creativo e romantico" dell'imprenditore ma ha fatto fuori anche "il regalo che l'Occidente del XX secolo consegna al mondo", ovvero "la nostra legislazione del lavoro...che ha ormai quasi duecento anni" e "stabilisce che un diritto negato e' un diritti anche se nessuno protesta. E va difeso. Sempre".
La salvezza arriva dalla riconquista di una fierezza perduta. Ma forse e' tardi. E quando scende in piazza, insieme con gli altri imprenditori di Prato, "gente che in tutta la vita non ha fatto altro che lavorare", lo scrittore ex imprenditore e' "smarrito". Forse e' tardi. Forse no. Nesi -che da imprenditore si ispirava ai tessuti indossati da Hemingway, Fitzgerald e Lowry- chiede aiuto ai libri, ai fratelli maggiori. Rivolto a Richard Ford, in un convegno pubblico, chiede "che cosa avremo dovuto fare". "Edoardo", risponde l'autore di Sportswriter, "sono certo che alla fine, in qualche modo, l'economia soccombera' a un atto dell'immaginazione".
Fonte: AGI
L'industriale "di provincia" Nesi e lo scrittore Nesi si ricompongono in una scrittura "luddista", rabbiosa e lirica, che ricorda da vicino quel Luciano Bianciardi che nella "Vita agra" vorrebbe fare a pezzi lo scaldabagno, il "boiler", che lo interrompe ogni volta che fa all'amore con la propria donna. Bianciardi si scagliava contro i segni di un miracolo economico che ha fatto la ricchezza di distretti industriali come Prato, e da qui parte oggi, forse tardiva, la rivolta contro l'ultimo stadio della globalizzazione: "...Un incubo distopico", scrive Nesi, "in cui le differenze tra le persone e gli stati...si sarebbero stemperate prima e dissolte poi in una dorata utopia in cui tutti gli abitanti del mondo sarebbero stati cittadini di un unico impero, sedati dalla pubblicita' e imboniti dalla televisione...felici di parlare la stessa lingua senza avere piu' nulla da dire".
Il paragone con Bianciardi finisce qui, toscanita' a parte. Dopo un andirivieni tra l'Italia e l'America, per formarsi e vedere il mondo, Nesi torna nella sua Prato, "una citta' intera che si fonda sul tessile, costellata di decine e decine di aziende come la nostra, tutte in continua crescita" e dove "non bisognava essere un genio per emergere, perche' il sistema funzionava cosi' bene che facevano soldi anche i testoni, purche' si impegnassero; anche i tonti, purche' dedicassero tutta la loro vita al lavoro". Prato, teatro di un capitalismo "quasi morale, per cui gli operai piu' capaci e piu' volenterosi che decidono di mettersi in proprio e diventare imprenditori possono provare a farlo con una certa possibilita' di successo".
"Storia della mia gente" e' la cronaca dell'annichilimento e della sparizione di un universo di creativita' e di rapporti economici e umani sotto il passo schiacciante di una globalizzazione senza freni e senza ritegno, accompagnata da un pensiero unico al quale si sono accodati politici di destra e sinistra ed economisti di fama.
L'invettiva colpisce furiosamente uno di loro, il professor Francesco Giavazzi, "il piu' petulante" e "il piu' acerrimo sostenitore italiano dell'infinita' bonta' della globalizzazione", destinatario di una lettera mai spedita da "Edoardo Nesi, imprenditore in Prato". "Caro Giavazzi", scrive Nesi, "ieri notte ho fatto un sogno. Ero lei, Francesco Giavazzi, e potevo sbeffeggiare dalla prima pagina del 'Corriere' quegli imbecilli degli imprenditori italiani sbranati dai cinesi senza che nessuno alzi un dito per difenderli...".
E' una lettera a Giavazzi, ma anche a Mario Monti, a Vincenzo Visco, e a tutti coloro che "durante gli anni Novanta, subito prima che la Cina entrasse nel WTO e ai suoi prodotti fosse concesso di invadere l'Occidente come un'onda di piena...giravano il mondo sorridenti a firmare accordi che avrebbero minato la prosperita' dell'Italia" e spinti da "un gigantesco complesso d'inferiorita'" che "impedisce ai nostri politici di difendere gli interessi dell'industria manifatturiera e dei milioni di persone" che "ne campano". Prato, in cui vive una delle comunita' di cinesi piu' grandi d'Europa, "ti prende per la collottola e ti infila il muso nel piscio, come facevano i vecchi ai cani che avevano sporcato dove non dovevano sporcare".
E allora un giorno, venduta l'attivita', lo scrittore accompagna la polizia nell'ispezione di uno di quei fetidi scantinati che hanno preso il posto di fabbriche in cui si producevano "i tessuti piu' belli del mondo", e capisce che l'apertura mondiale degli scambi commerciali non ha solo ucciso "il lavoro creativo e romantico" dell'imprenditore ma ha fatto fuori anche "il regalo che l'Occidente del XX secolo consegna al mondo", ovvero "la nostra legislazione del lavoro...che ha ormai quasi duecento anni" e "stabilisce che un diritto negato e' un diritti anche se nessuno protesta. E va difeso. Sempre".
La salvezza arriva dalla riconquista di una fierezza perduta. Ma forse e' tardi. E quando scende in piazza, insieme con gli altri imprenditori di Prato, "gente che in tutta la vita non ha fatto altro che lavorare", lo scrittore ex imprenditore e' "smarrito". Forse e' tardi. Forse no. Nesi -che da imprenditore si ispirava ai tessuti indossati da Hemingway, Fitzgerald e Lowry- chiede aiuto ai libri, ai fratelli maggiori. Rivolto a Richard Ford, in un convegno pubblico, chiede "che cosa avremo dovuto fare". "Edoardo", risponde l'autore di Sportswriter, "sono certo che alla fine, in qualche modo, l'economia soccombera' a un atto dell'immaginazione".
Fonte: AGI