La crisi reale, storie di imprenditori abbandonati dalle banche e dallo Stato
La crisi risucchia l’ottimismo fino a indurre al suicidio. Sono centinaia le vittime del disastro economico che stiamo attraversando, dipendenti e piccoli imprenditori italiani che negli ultimi due anni si sono tolti la vita perché hanno perso il lavoro o hanno dovuto dichiarare fallita la loro azienda. Tutto scorre, specie le loro vite che si spengono nel silenzio mentre la situazione non sembra migliorare. Per questo il Comitato piccoli imprenditori Invisibili (Co.p.i.i.) intende dare visibilità alla sofferenza di chi decide di fare impresa ma viene abbandonato dalle banche e dallo Stato, con gravissime conseguenze finanziarie e psicologiche. Sarà presentato ufficialmente venerdì alle 12 a Empoli nella sede di via dei Neri 29 e in attesa del sito per ora ha creato un profilo facebook.
A promuoverlo insieme ad altri quattro colleghi è stata Giuseppina Virgili, imprenditrice 53enne del settore tessile, che nel 2009 aveva messo in vendita i reni e il cuore per tentare di salvare la sua azienda dal fallimento. Si era rivolta anche agli usurai, aveva iniziato lo sciopero della fame e chiesto aiuto alle istituzioni. Che, se in un primo momento sembravano ascoltare, poi hanno dimenticato e sono rimaste immobili. Finora il Comitato ha raccolto un centinaio di adesioni e punta a creare un coordinamento con gli assessorati Attività produttive di tutte le regioni italiane. “Sto raccogliendo storie di disperazione da Nord a Sud – dice Virgili. -Imprenditori costretti a chiudere con istanze di fallimento, banche che non concedono fidi e amministrazioni pubbliche che non pagano”. Le pmi, che se incentivate “produrrebbero ricchezza interna, posti di lavoro, qualità dei prodotti a chilometri zero, migliorando ambiente e società”, sono la spina dorsale della nostra economia ma sono calpestate dalla concorrenza sleale e dalla globalizzazione. “Se sei Fiat o una grande impresa hai le porte aperte, ma noi piccoli moriamo nell’indifferenza e tanti di noi non riescono a ricollocarsi”, prosegue l’imprenditrice che però calcola: “In Italia chiudono 38 aziende al giorno con una media di 10 dipendenti ciascuna. Moltiplicate per venti giorni di lavoro: abbiamo un’azienda di medie dimensioni”. A differenza però di multinazionali e grandi spa, nelle pmi “investiamo tutto, anche i nostri beni privati. Se chiude l’azienda chiude anche la famiglia. Non abbiamo sindacati e coi nostri dipendenti instauriamo rapporti di fiducia reciproca, siamo i loro ammortizzatori sociali. Per noi sono ‘persone’, non semplici lavoratori”. E attacca anche l’indifferenza del governo: “Monti si è concentrato tanto sulla lotta all’evasione fiscale. E chi controlla la concorrenza sleale? Il nostro manufatto, che è l’intelligenza delle nostre mani, viene mortificato. E sia chiaro: non siamo noi ‘gli evasori’, quelli che hanno mandato in rovina il Paese”.
Due anni fa Virgili aveva anche messo in vendita gli organi e tentato di sensibilizzare la Regione Toscana. Invano. “Vivo di elemosina, della pensione di mio padre e della Caritas da quattro anni. Ho bisogno di cure mediche ma non riesco a pagare il ticket. Come tanti altri imprenditori italiani, del resto”, che, peraltro, si trovano in difficoltà per coprire le spese degli avvocati e dei commercialisti. “Il Comitato nasce anche per costruire una rete di professionisti disposti a supportare i colleghi con patrocini gratuiti o prezzi di favore e per i quali vogliamo anche costituire un fondo comune da usare in casi speciali”. E sono tanti, purtroppo, a trovarsi in situazioni di emergenza: “Ricevo mail disperate, tra imprenditori che hanno tentato il suicidio e altri che non sanno come dire ai dipendenti che sono licenziati. Per tanti di noi lasciare l’attività vuol dire abbandonare la propria ragione di vita”.