Così hanno ucciso l
Sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico il 15 marzo si sarebbe dovuto discutere della crisi del distretto del mobile imbottito compreso tra Puglia e Basilicata, uno dei fiori all’occhiello del made in Italy che solo nel 2003 valeva 2,2 miliardi di euro, il 55% della produzione italiana e circa l’11% di quella mondiale, e ora, tra globalizzazione, apprezzamento dell’euro, crisi dei mercati e concorrenza straniera, si ritrova con circa 5mila addetti in cassa integrazione e con ricavi scesi intorno ai 700 milioni. Da più di otto anni attende da governo e Regioni un accordo di programma che trasferisca risorse in grado di rilanciare investimenti, occupazione ed export che qui, in parte come a Prato, subiscono ora anche la beffa dei divani dei laboratori cinesi, spesso irregolari e con a libro paga gli stessi cassintegrati del comparto.
La crisi interessa in tutto 12 Comuni, di cui 8 pugliesi e 4 lucani. Nel Barese adesso ci sono pure Modugno, Gravina, Poggiorsini e Cassano. Nel Tarantino invece Ginosa e Laterza. In Basilicata il virus si è allargato a Montescaglioso, Pisticci e Ferrandina. Tutto però è nato alla fine degli anni ’50 nel cosiddetto “triangolo del salotto” tra Altamura, Santeramo e Matera, sulla parabola di successo di tre imprenditori ex soci, Pasquale Natuzzi, Liborio Calia e Giuseppe Nicoletti, cresciuti come giovani apprendisti di piccole botteghe artigiane e poi, rispettivamente nel ’59, ’65 e ’67, saliti al timone di aziende diventate negli anni leader mondiali del settore.
Una storia di maestranze che, “giocando” ad imitare i maestri del manifatturiero della Brianza, è riuscita a superare limiti e segreti dei più bravi anche all’estero, conquistando mercati e fiere internazionali da New York a Dubai con prezzi relativamente bassi (alcuni listini ora arrivano a 5mila euro), processi sempre più industrializzati, ma poltrone e sofà dal dna in gran parte artigianale. Un mix vincente che ha spinto la Natuzzi persino a quotarsi a Wall Street nel ’93 e, come altri, a inaugurare show room o addirittura delocalizzare stabilimenti in Cina, Romania e Brasile (alcuni poi chiusi). All’ombra dei tre “grandi” sono nate (e anche fallite) centinaia di piccole e medie imprese che, tra produttori diretti, conto-terzisti e sub-fornitori, hanno investito milioni di euro in design e funzionalità, ma soprattutto in mega opifici in aree dove tutto è arrivato dopo.
Come lo stesso distretto. La Basilicata, ad esempio, l’ha istituzionalizzato solo nel 2001. La Puglia si è svegliata nel 2006, ma l’ha riconosciuto appena due anni fa in quello del Legno e arredo. Stessa storia per le infrastrutture. L’intero raddoppio dell’asse stradale Bari-Matera arriverà solo nel 2015 e costerà all’Anas circa 250 milioni di euro. Due anni fa ha tagliato il nastro a quello della statale 99 che unisce Matera ad Altamura e fra tre anni inaugurerà le quattro corsie della 96 che arriva fino a Bari. Gli aeroporti? Per raggiungere lo scalo internazionale Karol Wojtyla di Palese il percorso è ostacolato dai lavori e i tir dei divani (e non solo) impiegano in media un’ora per percorrere dai 40 (dalla sponda barese) ai 55 chilometri (dal fronte lucano). Nella città dei Sassi aspettano ancora di caricare i cargo dall’aviosuperficie Enrico Mattei di Pisticci, sempre tale dagli anni ’60.
L’unica linea ferroviaria del distretto è quella a scartamento ridotto delle Ferrovie Appulo Lucane e non trasporta merci. A Matera il progetto dell’86 per portar le Ferrovie dello Stato da Ferrandina non è mai stato completato. Lavoratori e salotti sarebbero arrivati però proprio a “La Martella”, una delle tante zone industriali dell’indotto. Le altre, come “Jesce”, al confine tra le due regioni, sono ancora insediamenti a metà, tra espansioni urbanistiche a macchia di leopardo, reti idrico-fognarie a singhiozzo e strade asfaltate come Kabul. I porti? Buona parte dei container per l’estero ha da anni voltato le spalle a quello di Taranto, arrivando fino a Gioia Tauro.
Gli unici che non sentono la crisi sono i cinesi. Per il ministero dell’Interno qui c’è una comunità di 2mila 500 persone. Solo tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, la direzione generale delle Attività ispettive del ministero del Lavoro ne ha scoperti più di 200 irregolari, tutti all’opera anche di notte per consegne alle ditte locali o per vendere in proprio col marchio made in Italy e a prezzi più stracciati. Più del low cost Ikea, arrivata a Bari nel 2007. L’ambasciatore cinese in Italia, Ding Wei, il 27 febbraio scorso è arrivato in Puglia per tutt’altri problemi: trovare investitori cinesi per Aeroporti di Puglia, realizzare l’Istituto Confucio a Bari, far sbarcare la green economy pugliese a Canton. Ma insieme a Cesare Romiti, oggi a capo della Fondazione Italia-Cina, l’unica azienda che ha visitato è stata la Natuzzi, dal ’98 nel paese di Mao e la prima a denunciare il dumping di laboratori asiatici illegali dietro l’angolo.
Il colosso di Santeramo chiede l’accordo di programma da anni, ma soprattutto tutele contro il ribattezzato “meid in itali” cinese. Nel 2002 fatturava 805,1 milioni di euro, dopo otto anni 518,6. Ad ottobre scorso ha mandato in cassa integrazione per 24 mesi 2mila 940 dipendenti per riorganizzazione aziendale, calcolando un esubero strutturale pari a 1.280 lavoratori in tutta Italia dopo i 1.540 del 2009. Nel primo semestre del 2011 le vendite sono calate del 12,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Alla Nicoletti è andata peggio: dieci anni fa chiudeva il bilancio sui 124,4 milioni di euro, nel 2008 la crisi e i costi della delocalizzazione l’hanno portata al fallimento, con 323 operai che il 30 giugno prossimo vedranno scadere la cassa integrazione straordinaria in deroga. L’azienda, rifondata in Nicoletti Home, è entrata poi nel consorzio Consofa, una partnership aziendale, tra logistica, acquisti e risorse umane, creata dall’altro “grande” del divano, il gruppo Calia Italia, appoggiato da tempo anche al conto lavoro.
Imprenditori e sindacati battono i pugni sui tavoli di governo e Regioni dal febbraio 2004. Un tira e molla. Risposte solo col protocollo Scajola nel 2006 e con misure mai operative. Poi esplode la crisi e per rivederne le basi da Roma ci mettono due anni. Nel luglio 2010 sembra tutto pronto, ma poi nessuno sa a chi spetti dichiarare ufficialmente l’affanno del distretto. L’intoppo è nelle norme in tema di rilancio delle aree industriali (legge 181/89) e accordi di programma (legge 99/2009). Puglia e Basilicata chiedono così lumi al ministero dello Sviluppo economico, ma arrivano solo nell’estate 2011. A muoversi sono le giunte regionali (il Mise ne ha solo facoltà), ma il timbro sulla crisi a Bari viene messo il 26 luglio, a Potenza solo l’1 ottobre scorso.
Le idee ci sono, i soldi no. Stando all’ultima bozza stilata dai tecnici ministeriali a settembre, sul tavolo ci sarebbe un fondo di 80 milioni di euro, di cui 40 milioni dallo Stato e 20 da entrambe le Regioni, tra contribuiti a fondo perduto fino al 40% degli investimenti e mutui agevolati fino al 30% delle somme impiegate attraverso Invitalia, l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti. I dubbi sono molti: l’Italia, stando ai piani dei tecnici ministeriali, chiederebbe all’Europa la copertura dell’accordo nell’ambito del Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (Feg) che ogni anno sostiene i piani d’azione degli Stati europei con indennità per la ricerca di nuovi impieghi, risorse per la mobilità e formazione professionale. Servono però i sì di Commissione, Consiglio e Parlamento, e la garanzia sarebbe in ogni caso per il 65% delle somme. In più, per ottenerle ogni impresa del legno arredo in difficoltà dovrà destinare almeno il 30% del fatturato al divano. Le ipotesi a breve termine? La proroga della cassa integrazione straordinaria e in deroga per i 5mila dell’indotto qualora entrambe le Regioni si impegnino a reinserirli in una trentina di iniziative industriali finanziabili con la ormai famosa legge per il rilancio delle aree industriali e altri bandi regionali. Per ora l’ha fatto solo la Basilicata.
Il prossimo appuntamento del comparto è dal 17 al 22 aprile alla Fiera internazionale del Mobile di Milano. Ci saranno anche le novità della Nicoline di Altamura, oltre 70 anni di storia e un fatturato di circa 6 milioni di euro. Il 70% dei divani resta in Italia, il resto va per lo più in Ucraina, Russia, Cina e negli ultimi mesi anche in Australia. Per alcuni dipendenti è scattata la cassa integrazione ordinaria, ma l’amministratore unico Nicola Palasciano scommette tutto su qualità, know-how, ciclo produttivo interno certificato, brand e mercati emergenti come Sud America, Africa e India. «L’accordo di programma è una presa per i fondelli – dichiara a Linkiesta l’imprenditore, nel salotto dal ’74 – con 80 milioni di euro non si risolve la situazione, ci sono troppi imprenditori disperati e basterebbero solo per la Natuzzi. Io chiedo di premiare chi mantiene l’occupazione, non incentivi all’assunzione o bandi complicati. Ci si lamenta che i fondi europei tornano a Bruxelles, ma i bandi finanziano tutti l’internazionalizzazione, ma se io produco in Italia chi mi finanzia?». La nuova sede della Nicoline da 9mila metri quadri è stata tirata su sette anni fa, cofinanziata dal Programma Operativo Regionale (Por) della Puglia per sistema industriale, Pmi e artigianato. «Allora ho inserito 25 dipendenti, ma oggi è più difficile – ricorda Palasciano – per aprire ho tirato fuori io i soldi per asfaltare la strada e illuminarla, le istituzioni sono arrivate dopo. Siamo penalizzati, in Brianza poi anche se non fai un grande made in Italy sei comunque grande. Sono venuti pure a controllare se mi fossi portato a casa i beni acquistati al 40 per cento, ho ancora la scrivania con l’etichetta della Regione Puglia. Sono molto preoccupato, qui ogni giorno che passa la disoccupazione aumenta».
Nel 2003, infatti, secondo uno studio dell’Agenzia regionale per la tecnologia e l’innovazione della Puglia (Arti), il distretto contava su 514 aziende per 14mila addetti e un fatturato di oltre 2,2 miliardi di euro, mentre nel 2007 le aziende erano 162 e gli occupati 8mila. Oggi nell’area lucana restano 46 aziende, con un fatturato di circa 200 milioni di euro e 2mila occupati. Sulla sponda pugliese, invece, le ditte sono poco più di un centinaio, con circa 3mila 500 addetti e un volume d’affari sotto i 500 milioni di euro. L’asse delle vendite da Europa e Nord America si è spostato in Brasile, India, Russia e Cina. Stando alle elaborazioni di Federlegno e del Monitor dei Distretti del Mezzogiorno di Intesa Sanpaolo su dati Istat, l’export è crollato: 1,3 miliardi di euro nel 2002, 554 milioni nel 2008 e 453 milioni nel 2010. La disoccupazione nella zona è al 55%, anche se tra i primi undici mesi del 2011 e lo stesso periodo del 2010 le ore di cassa integrazione da 5,8 milioni sono scese a 4,8, ma rispetto al 2009 le cifre sono comunque raddoppiate.
Palasciano, prima in Confindustria e poi in Federlegno, chiede agli imprenditori di fare squadra perché la filiera giochi ad armi pari con altre. «Siamo conosciuti in tutto il mondo ma non siamo uniti – precisa il numero uno della Nicoline – qui poi c’è una malattia: rubarsi le idee, le ricerche e i segreti tra le aziende. Siamo ancora visti come un triangolo del salotto, ma i salotti che si fanno qui sono fatti dieci volte peggio di quelli fatti dai cinesi e costano molto di più. Non dobbiamo maledire la Cina, diciamo pure che anche qui facciamo le porcherie e poi le vendiamo. Molti poi sfruttano il conto lavoro e fanno speculazione. Il nemico è in casa e con la manodopera a nero il divano costa pure 500 euro, con questi prezzi non si riesce a competere. Io ho tutte le certificazioni, persino quella ambientale europea, ma forse anche questo pesa sulla competitività».
Chi non ha bisogno dell’accordo rientra tra coloro che per anni sono stati accusati di aver paura di diventare grandi o di delocalizzare, limitandosi a investire in manodopera qualificata e ciclo produttivo interno, tenendo d’occhio i bilanci. Una sorta di binario parallelo dello sviluppo locale che già prima degli anni del boom ha iniziato a fortificare nicchie di mercato e a sfruttare i cambi valutari con la lira debole. Lo sa bene Francesco Cicirelli, partito nel ’72 e ora guida la Quartet Group di Altamura, nata nel 2002 come evoluzione famigliare dell’azienda TreCi Salotti: «Allora – spiega a Linkiesta – venivano a comprare gli arabi con i petroldollari, negli anni ottanta gli americani col dollaro a 2mila lire, negli anni novanta i giapponesi e soprattutto tedeschi che portavano via camionate intere di divani guadagnando fino al 50 per cento col marco a 1500 lire. Infine gli inglesi con la sterlina a 3mila lire. Lì sì che esportavamo il made in Italy. Con l’euro è arrivata la catastrofe, non siamo più competitivi e pochi sono rimasti in piedi». Nel ’92 Cicirelli si è tuffato anche nel settore legno, creando la Epoque e sfornando mobili e complementi d’arredo con lo stilista Egon Furstenberg. Fattura circa 6 milioni di euro, ha una nicchia di mille clienti in Italia e vende metà della produzione tra Russia, Grecia e negli ultimi mesi anche Nigeria, dove ha arredato la casa del presidente Goodluck Jonathan. Nel mirino ci sono ora Arabia, Africa e Cina, ma la scelta strategica è aver cambiato rotta nell’età dell’oro. «Nell’85 – spiega Cicirelli – abbiamo deciso di non andare più dietro a Natuzzi che faceva solo pelle. Abbiamo scelto il salotto classico, quello d’arredamento, un mercato enorme con notevoli margini di utile e poca concorrenza. Fino al 2000 abbiamo lavorato come pazzi e ora siamo tra le prime due-tre aziende in Italia a realizzare questo prodotto, nemmeno i colleghi della Brianza hanno una linea di 300 divani diversi».
La nuova sede di Quartet di 25mila metri quadri è costata più di 10milioni di euro. Consente di produrre tutto in fabbrica, preparare pure fusti in legno e imbottiture in piuma. «Ma grazie ai soldi del 2000 – taglia corto Cicirelli – oggi questi investimenti oggi non si possono fare più e il mercato non è più quello di dieci anni fa, anche se stiamo reggendo alla crisi e fino ad ora non abbiamo mai fatto cassa integrazione. La mia ricetta è produrre poco, ma di qualità, così quando scivoli non ti fai male. Noi siamo rimasti sul mercato senza subire grosse perdite e restando sempre un’industria artigiana».
Secondo il rapporto 2011 di Bankitalia sull’economia della Puglia, la rischiosità dei prestiti alle imprese del distretto, tra incagli e sofferenze, è rimasta su livelli «elevati». E la congiuntura, oltre alle strette sul credito, ha portato le aziende a chiedere alle banche di ristrutturare i debiti e allungare le scadenze. Per citare una pubblicità, “Beato chi so’ fa, il sofà?”.