Tessile e Pmi:"Confindustria sia più sensibile"
Un comparto che soffre maledettamente - nel Varesotto e non solo -, una legge inadeguata a proteggerlo e la richiesta di applicare quantomeno un "codice etico" che salvi il salvabile in favore delle Pmi.
Sono queste le indicazioni uscite dalla riunione di Uniontessile Confapi nazionale, riunitasi nella sede varesina dell'associazione grazie al nuovo ruolo assunto da Franco Colombo, che alla presidenza di Confapi Varese ha aggiunto quella di presidente di Confapindustria Lombardia e più recentemente quella di membro della Giunta di Presidenza nazionale.
Il Comitato direttivo di Uniontessile - nelle cui fila si trova la presidente della sezione varesina, Maria Adele Brusa e lo stesso Franco Colombo - si è dato quindi appuntamento nelle sede di viale Milano per affrontare gli argomenti e tornare a rilanciare quelle richieste che aspettano di trovare accoglimento prima che la crisi arrivi ad azzerare definitivamente il comparto.
Una "fotografia" della situazione nel Varesotto - ma che può tranquillamente essere "esportata" in ogni altra regione - è data proprio dall'imprenditrice Maria Adele Brusa:"In provincia il mercato è semplicemente fermo. La domanda è in costante calo, ormai siamo arrivati ai minimi termini. Tante aziende hanno fatto ricorso alal cassa integrazione, diverse hanno chiuso, in molte lavorano qualche giorno alla settimana. I maggiori problemi? Mancanza di ordinativi, problema di credito e liquidità, mancati pagamenti".
Un quadro a tinte fosche che Uniontessile Confapi sta provando a difendere impegnandosi nella lotta alla contraffazione e alla tutela del Made in Italy.
E in questo senso per Aldo Buratti, il presidente di Uniontessile presente al Comitato direttivo organizzato a Varese, il passo più importante da compiere è "dare trasparenza al consumatore di cosa sta comprando". Ovvero garantire che l'etichetta made in Italy compaia esclusivamente su prodotti fabbricati in Italia, in modo da tutelare maggiormente gli artigiani italiani.
Già, perché è risaputo che i grandi gruppi - in base alla legislazione vigente - hanno possibilità di etichettare come made in Italy un capo che è stato realizzato in gran parte all'estero.
Una pratica assai diffusa che garantisce un largo margine di profitto - è evidente il differente costo di produzione tra Italia oppure Cina, Marocco o Tunisia - ma che ha messo all'angolo il nostro manifatturiero che non ha più le risorse né per innovare, né per cercare di internazionalizzarsi.
"Abbiamo una situazione di impasse per la quale, a livello di Comunità europea, nonostante la legge Reguzzoni-Versace, nonostante l'invito dello stesso Parlamento europeo è tutto bloccato - dice Buratti -.Siamo in una situazione che premia quelle aziende che non hanno alcun interesse affinché vi sia un concetto di trasparenza. Da qui la proposta di Uniontessile Confapi alla creazione di un codice etico di autoregolamentazione per tutelare il nostro manifatturiero".
Insomma, una normativa di tipo doganale di fatto consente di vendere il "made in Italy" non prodotto in Italia, con il costo del capo "made in Italy". E a guadagnarci non sono certo le Pmi.
"Purtroppo abbiamo incontrato dei grossi ostacoli e il discorso non sta proseguendo - conclude Buratti -. Mi pare ci siano interessi in Italia e in Europa, per far sì che non venga applicata una normativa di tipo americano o anche cinese. Infine, notiamo che Confindustria non è particolarmente sensibile alla proposta del codice etico di autoregolamentazione. Un peccato, perché potrebbe supplire alla legge Reguzzoni-Versace ferma in Europa e dare ossigeno alle Pmi. Mi chiedo se la grande imprenditoria italiana sia interessatamente distratta".
Fonte: InInsubria.it