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2015-01-01

Fabbrica Italiana Vendesi

Giorni fa leggevo l'interessante articolo di Gianni Dragoni sull'imminente divorzio tra la Benetton e la Borsa Italiana, visto da molti come il primo passo verso un cambiamento del controllo azionario, che vestirebbe di nuovi colori la bandiera degli united colors of benetton. Le ipotesi sul futuro di questo marchio, tutt'ora attivo e con una storia straordinaria alle spalle, che racconta una famiglia di artigiani diventare una multinazionale della moda, e non solo, ci offre un ottimo spunto per gettare uno sguardo su altri marchi italiani divenuti famosi nel mondo. Marchi protagonisti di una metamorfosi sognante, grazie all'inventiva di chi li ha concepiti, ma anche grazie ai lavoratori italiani e al contributo dello Stato e quindi di tutti noi.

Di tutti noi si, perché non si può dubitare della correlazione tra le vicende che riguardano una fabbrica e la società civile che la ospita. Ci sono variabili occupazionali e di reddito dipendenti dalla strategia industriale e finanziaria adottata da una megaindustria, ma la rete delle relazioni va ben oltre. C'è l'economia parallela dell'indotto; ci sono le infrastrutture realizzate su misura per soddisfare l'esigenza di centralità del luogo di produzione; c'è soprattutto l'intero tessuto sociale, che è stato plasmato come creta dal rapporto dominante dell'industria locale sulla comunità. Chi è nato e cresciuto all'ombra dello stabilimento, assumendone i ritmi e gli umori, i benefici e i danni collaterali, si sta chiedendo che ne sarà di sé e del territorio in cui vive, poiché entrambi sono stati investiti totalmente in quella fabbrica, che ora sembra svanire, un pezzo alla volta.

Probabilmente per una parte di noi, lontana geograficamente dalle zone di produzione, si avvertiranno più lentamente gli effetti della progressiva deindustrializzazione, testimoniata dallo stillicidio di aziende italiane cedute a gruppi economici stranieri. Chi è legato al prodotto solo in quanto consumatore finale, forse neanche è a conoscenza che sugli scaffali dei supermercati (quasi sicuramente francesi o tedeschi) vicino casa, troverà una gran quantità di prodotti non più italiani: da Buitoni a Perugina, da Peroni e Bertolli, da Gancia a Motta; se poi vorrà curiosare davanti alle vetrine delle maison Bulgari, Gucci, Valentino, sappia che esse non rappresentano più il lusso made in Italy; e se vorrà, infine, cambiare automobile, tra non molto potrà acquistare un'americanissima Fiat. A questo proposito mi ricordo quando l'Alfa Romeo fu ceduta alla Fiat, in cambio di investimenti futuri, invece che alla Ford, in cambio di miliardi cash, anche per difendere un capitale industriale italiano.

Pertanto, cessione e delocalizzazione fanno si che l'economia italiana vada sempre più abbracciando una prospettiva di deindustrializzazione e favorendo lo sviluppo del settore terziario, cioè quello dei servizi. L'interrogativo attuale è se il cambio industria-servizi sia alla pari oppure no. La parte dei servizi con maggior valore aggiunto è quella del terziario avanzato: ricerca, informatica, consulenza tecnica. Quindi tutto ciò che significa servizi alle imprese, che il nostro paese, però, sta cedendo all'estero e questo richiederà uno sforzo ulteriore per vincere la competitività internazionale in casa d'altri, al fine di esportare servizi avanzati.

Il rischio, che mette paura, è di rimanere con un'economia fondata solo sul settore terziario tradizionale, quello rivolto alla distribuzione e ai consumi. Un'economia, cioè, svuotata dalle emozioni di nuove sfide e dall'effetto moltiplicatore che la tecnologia promette. Questa possibilità, se rimanesse l'unica sul tavolo, rischierebbe di far avvitare l'Italia su se stessa, precipitandola in un'economia piatta e modesta, ai margini del progresso.
Il cambiamento ha avuto inizio, comprenderlo significa assicurarsi un futuro di crescita e lavoro. Lo sviluppo economico e sociale passa obbligatoriamente per questa strada e sta al governo renderla veloce e sicura.

Fonte: Antonio Cianfarini su Cadoinpiedi.it

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