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2015-01-01

Made in Italy sotto attacco: una guida per scegliere il cibo nell'era delle etichette "mute"

Le etichette dei prodotti alimentari, quelle con cui abbiamo a che fare tutti i giorni, sono per lo più reticenti. Raccontano tanto per dire nulla. Spesso nascondono informazioni che i consumatori gradirebbero conoscere. A cominciare dalla provenienza dei cibi. Ora l’attuale generazione di etichette «reticenti» si appresta a lasciare il passo a una nuova versione: le etichette mute. Dal 13 dicembre è in vigore un regolamento europeo che consente di omettere l’indicazione dello stabilimento di produzione o trasformazione. Così, se si escludono Dop e Igp, i prodotti a denominazione d’origine, tutto il resto potrà essere prodotto e confezionato all’estero, importato e messo in vendita come made in Italy. Col permesso della legge.
Così, in base a una norma che pare studiata per agevolare i delocalizzatori, perderemo uno degli legami residui che collegano il made in Italy all’Italia: la fabbrica dove avviene l’ultima trasformazione. Può valere per tutti l’esempio della pasta: i pastai potranno produrla in qualunque parte del mondo, utilizzando – cosa che già fanno ampiamente – farina di grano duro canadese, americana o ucraina. Poi, una volta essiccati e confezionati, spaghetti, maccheroni e penne potranno essere importati in Italia a messi in vendita. E sulla confezione non ci sarà traccia di quanto accaduto: nulla sull’origine della materia prima né sullo stabilimento di trasformazione. Sarà sufficiente che sulla confezione venga indicata l’azienda responsabile delle informazioni contenute in etichetta. Che, guardacaso, avrà sede in Italia. E se finora hanno sofferto soprattutto i produttori di materie prime, allevatori e agricoltori, ora la delocalizzazione alimentare è destinata a colpire la fase della trasformazione. Nulla trattiene più le industrie dallo spostare nei Paesi a basso costo di manodopera e con una burocrazia leggera quel che resta del made in Italy. E i consumatori non lo verranno mai a sapere. Ma cosa cambierà in termini di tracciabilità e trasparenza? Riusciremo a capire la provenienza degli alimenti? Ecco una breve guida all’acquisto.

PANE. Non è prevista alcuna tracciabilità, se si eccettuano alcuni casi con accordi fra produttori agricoli locali e fornai (valga per tutti l’esempio del pane piacentino). Probabilmente sono destinate a crescere le importazioni di pani surgelati destinati alla cottura rapida in arrivo dall’Europa orientale.

SALUMI. Ad esclusione delle Dop (Denominazione di origine protetta) e delle Igp (Indicazione d’origine protetta) prosciutti, coppe, pancette e salami potrebbero arrivare da ogni parte d’Europa. I casi di salumi a filiera trasparente sono rarissimi. Occhio all’etichetta!

SOTTACETI. Non c’è alcun vincolo a dichiarare l’origine delle verdure utilizzate. Alcuni produttori lo fanno spontaneamente. Non lasciatevi trarre in inganno dalle marche di fantasia. Un caso clamoroso: i peperoncini Montalbano, che con il celebre commissario e con la Sicilia non hanno nulla a che vedere, visto che provengono dall’Indonesia.

PASTA. L’emblema della dieta tricolore potrebbe essere prodotto a migliaia di chilometri dal Belpaese. La materia prima spesso arriva da Ucraina, Canada o Stati Uniti. Fortunatamente molti brand di nome, come Voiello (Barilla), alcune catene della grande distribuzione, come Coop e Finiper, e storici marchi del settore (Granoro e Ghigi) hanno messo in commercio linee fatte a partire da materia prima nazionale.

RISO. Identico discorso della pasta: la marca italiana non è sinonimo di prodotto italiano.

SUGHI E PASSATE. Per i primi non c’è alcuna certezza sull’origine della materia prima. Le passate, invece, devono indicarla chiaramente in etichetta. Basta uno zero virgola, ad esempio di basilico, per trasformare una passata in un sugo di pomodoro e affrancarla dall’obbligo di dichiarare la provenienza. Non mancano le eccezioni che segnalano con buona evidenza l’italianità e la tracciabilità.

BURRO. Non esistono prescrizioni vincolanti. Solita regola: in assenza di indicazioni sull’origine c’è una probabilità elevata che il prodotto non sia italiano.

OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA. È una delle rare merceologie per le quali i produttori sono vincolati a indicare il Paese di provenienza delle olive o dell’olio. Purtroppo fatta la legge (italiana) è arrivato il regolamento (europeo) a limitarne gli effetti: Bruxelles ha consentito di poter scrivere la dicitura generica “olio extravergine comunitario”. Negli ultimi tre anni però anche produttori tradizionalmente poco attenti all’origine hanno messo in vendita degli extravergine a filiera trasparente. Mai dare per scontato che l’olio acquistato per decenni sia italiano: basta ruotare la bottiglia e leggere fra le scritte stampate in carattere piccolo. Lì c’è la verità.

FORMAGGI. Tolte le Dop, per il resto c’è poco da stare allegri. Quelli a pasta molle, in particolare, possono essere ottenuti con latte o cagliate (talvolta surgelate) provenienti magari dai Paesi baltici. Se si escludono le denominazioni d’origine, non esiste alcun obbligo per il produttore. Quindi dalla lettura dell’etichetta si ricava poco o nulla. Fanno eccezione alcuni stracchini che puntano sull’italianità del latte.

CARNI. Su quella bovina e sul pollo è obbligatorio indicare il Paese in cui in capo è nato ed è stato allevato - una trasparenza che dobbiamo, rispettivamente, al morbo della mucca pazza e all’aviaria. Per le carni suine, invece, non c’è certezza né obbligo alcuno. Sugli scaffali refrigerati dei supermercati, i tagli italiani sono spesso mischiati a quelli d’importazione. Un’occhiata in più all’etichetta non fa mai male.

PESCE. In teoria la filiera dovrebbe essere tracciabile. In pratica le indicazioni non consentono di identificare sempre e con facilità la zona di pesca. La stessa specie, poi, può arrivare dall’Adriatico o dall’Oceano Pacifico.

UOVA. Fortunatamente ne importiamo ancora poche, perché accade anche che per verificarne la provenienza si debba aprire la confezione.

LATTE. L’obbligo di dichiarare l’origine vale solo per quello fresco. Gli altri sono quasi sempre d’importazione.

CIOCCOLATO, GELATI, MERENDINE E BISCOTTI. Quello dei dolci è uno dei comparti merceologici meno trasparenti. Le eccezioni sono legate quasi esclusivamente a prodotti del territorio. Pure in questo caso occhio a coccarde, nastri e bandierine tricolori: possono non significare nulla.

ORTOFRUTTA. Vige l’obbligo della massima trasparenza. Anche per i prodotti sfusi a bancone c’è il vincolo di scrivere il Paese di provenienza.

SURGELATI. Hic sunt leones. Una specie di terra di nessuno. Ho incontrato spesso confezioni con richiami espliciti allo Stivale, nomi che evocano zone ben precise o marchi a forte connotazione localistica, ma che con la nostra terra non c’entrano nulla.

CODICE A BARRE. Non diceva nulla prima, ora racconta ancor meno. Finora la decodifica portava al proprietario (italiano) del marchio. Col nuovo regolamento europeo la lettura del codice “svelerà” il responsabile delle informazioni scritte sulla confezione. Meno di così…

 

[fonte: liberoquotidiano.it]

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