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2016-05-05

La Francia chiude al Ttip

Parole forti contro il Ttip sono arrivate ieri niente meno che dal presidente della Repubblica francese François Hollande. “La Francia”, ha spiegato, “è contro l’attuale contenuto del Trattato transatlantico sul commercio e sugli investimenti per questioni fondamentali del Paese come l’agricoltura, la salute e l’ambiente”. “E’ per questa ragione che la Francia dice no al proseguimento degli attuali negoziati“, ha aggiunto Hollande, a poche ore dalle rivelazioni di Greenpeace che, entrata in possesso di alcuni documenti riservati relativi ai negoziati, ha denunciato il pericolo rappresentato dal trattato per l’Europa. In discussione, tra le altre cose, vi è la reciprocità d’accesso ai mercati pubblici e, nel complesso, un modus operandi da parte degli Stati Uniti che appare del tutto predatorio. “Il problema”, aveva confessato d’altronde il dirigente del ministero dello Sviluppo economico Amedeo Teti, nel corso di un’audizione in Senato, “è che gli Usa non sono stati capaci di fare aperture all’Europa nemmeno in ambiti come gli appalti pubblici e i servizi”. In poche parole gli americani, per favorire le esportazioni delle proprie merci (sulle quali infatti gli analisti, in prospettiva, prevedono incrementi maggiori di quelli europei), spingono sull’Europa per una gara al ribasso rispetto alle norme a tutela dei consumatori, ma rimangono invece molto attenti a tutelare i propri interessi, ad esempio la legge cosiddetta “buy american” che obbliga le aziende vincitrici di appalti ad usare prodotti per la metà statunitensi. E che non è l’unica, dal momento che durissimi limiti alle aziende straniere sono posti anche sull’acquisto delle compagnie aeree, la produzione di imbarcazioni, le bevande alcoliche, oltre ad altre limitazioni “minori” su un’ampia gamma di prodotti europei.

Provvedimenti sacrosanti, che del resto portano alla luce una verità di fondo: il libero scambio piace agli Usa, ma il loro approccio non è per nulla ideologico. Prima gli interessi nazionali, poi, semmai, il libero mercato che, a quanto pare, non sempre è una manna dal cielo neanche per loro ed al quale, molto probabilmente, credono nella misura in cui gli garantisce una posizione dominante. Qualche anno fa, in effetti, quando i negoziati erano ancora in fase embrionale, Tiziana Ciprini (M5S) evidenziava in una interpellanza parlamentare: “gli Usa fanno già parte dell’American Free Trade Agreement (Nafta) e del Central America Free Trade Agreement (Cafta) e hanno già avviato i negoziati per due nuovi accordi: la Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) con l’Unione europea e la Trans Pacific Partnership (Tpp) con vari paesi dell’Asia; grazie a questi trattati gli Usa si troveranno al centro di una vasta zona di libero scambio che renderà vantaggioso per le aziende estere spostare la produzione negli Stati Uniti, sia per alimentare l’enorme mercato interno, sia per riesportare in tutti quei Paesi che hanno accordi di libero scambio con gli Usa”. Come il Piano Marshall rimise in piedi l’Europa inondandola di prodotti e prestiti americani, così il Ttip non è certo l’ennesimo atto di generosità nei confronti del nostro continente. E quel che è bene, è che almeno questa volta la cosa è abbastanza esplicita. Ecco perché, secondo un sondaggio della Fondazione Bertelsmann, in due anni la fiducia dei tedeschi – pur campioni dell’export –  nel trattato transatlantico è scesa dal 55% al 34% e, addirittura, quella rispetto al libero scambio più in generale dall’86% al 56%. In Gran Bretagna, anche a causa della Cina, che produce da sola ben 860 milioni di tonnellate su un totale mondiale di 1665 milioni, inondando i mercati europei già in crisi, le più grandi acciaierie del paese stanno per chiudere i battenti. Altro omaggio del libero mercato.

E poi ci si chiede perché i popoli cominciano a non poterne più e sono contro l’Europa che asseconda queste logiche. Persino gli statunitensi, una volta compreso che il libero mercato i vantaggi che ti dà prima o poi te li toglie, non ne sembrano più così affascinati, tanto che i sostenitori del Ttip sembra siano giunti ad appena il 15% degli intervistati (Limes). Addirittura, segnalava un’inchiesta di Repubblica l’anno scorso, il consiglio comunale di New York, guidato da Bill de Blasio, in sintonia con il deputato democratico Jerrold Nadler, annunciava: “Faremo di New York una città immune dai trattati di libero scambio”.
Nel frattempo, come anticipavamo, Greenpeace Olanda ha pubblicato 240 pagine di documenti riservati, il cui contenuto non sembra però rinnovare più di tanto lo scenario intuibile dopo tre anni di trattative ed un ritardo di almeno un paio d’anni sulla prevista chiusura dei negoziati. Secondo Greenpeace, Usa e Ue stanno “creando un regime che antepone il profitto alla vita e alla salute umana, degli animali e delle piante”. “Nessuno dei capitoli che abbiamo visto”, spiegano, “fa alcun riferimento alla regola delle Eccezioni Generali (General Exceptions). Questa regola, stabilita quasi 70 anni fa, compresa negli accordi Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) della World Trade Organisation, permette agli stati di regolare il commercio “per proteggere la vita o la salute umana, animale o delle piante” o per “la conservazione delle risorse naturali esauribili””. L’omissione sarebbe un indizio poco promettente, dunque, ma non è tutto: “Il principio di precauzione, inglobato nel Trattato Ue”, prosegue Greenpeace, “non è menzionato nei capitoli sulla “Cooperazione Regolatoria”, né in nessuno degli altri 12 capitoli ottenuti. Invece la richiesta Usa di un approccio “basato sui rischi” che si propone di gestire le sostanze pericolose piuttosto che evitarle, è evidente in vari capitoli”.

In pratica, se in Europa, prima di vendere un prodotto, l’azienda deve provare l’assenza di rischi, negli Stati Uniti il prodotto viene venduto finché qualcuno non dimostri i rischi, magari dopo averne subito sulla propria pelle le conseguenze. E questo è quello che gli americani propongono di fare anche nel nostro continente. Gli Stati Uniti, inoltre, pretendono un accesso più semplice per i propri prodotti agrari in cambio dei vantaggi per l’industria europea delle automobili (o meglio, minacciando ritorsioni su di essa). Le trattative, dunque, al contrario di quanto sostiene Greenpeace, si prolungano proprio a causa degli interessi divergenti, ma – su questo siamo d’accordo – non c’è da illudersi che gli interessi in campo siano quelli dei cittadini e non quelli delle lobby europee che hanno ovviamente un grosso ruolo nelle trattative, tanto quanto quelle americane. È scontro, intanto, sulle norme a tutela dei marchi pregiati dei vini europei, norme delle quali gli Usa farebbero volentieri a meno. E’ scontro sull’importazione della carne, dal momento che l’Europa non permette l’uso di ormoni come avviene invece oltreoceano. In ballo anche la questione ogm. Anche se il commissario al Commercio Cecilia Malmstrom tenta di rassicurare: “Nessun accordo commerciale ad opera della Ue abbasserà mai il nostro livello di tutela dei consumatori, o della sicurezza alimentare, o dell’ambiente. Non cambieranno le nostre leggi in materia di ogm, o sul nostro modo sicuro di produrre carne di manzo, o il modo di proteggere l’ambiente. Qualsiasi accordo commerciale potrà solo cambiare i regolamenti per renderli più forti”. Non si capisce, dunque, perché trattare, se bastava chiedere agli Usa di adeguarsi ai nostri regolamenti. Sta di fatto che la firma del trattato, che doveva arrivare nel 2014 e poi nel 2015, probabilmente non arriverà neanche nel 2016 ed a pesare, oltre alle questioni già citate, ci sono anche le prossime elezioni del presidente degli Stati Uniti.

Nel frattempo, altra questione posta più volte sul banco degli imputati ed ora ritornata è la trasparenza. Al punto che persino sulla politicamente correttissima Repubblica, Giampaolo Cadalanu ha commentato critico: “non è accettabile che il feticcio del mercato libero sia ancora venerato dietro porte chiuse a doppia mandata. Perché il diritto di far circolare liberamente le merci non può che valere anche per l’informazione”. Persino dalle loro parti c’è chi ha definito lo scenario “preoccupante”, anche in relazione all’atteggiamento statunitense, aggressivo e chiuso rispetto alle pretese europee. Uno dei pericoli, segnalava nel maggio scorso l’inchiesta di Federico Rampini citata poc’anzi, sarebbe anche “la clausola Investor to State Dispute Settlement (Isds), che consentirebbe alle imprese private di far causa agli Stati davanti a una corte arbitrale per annullare provvedimenti considerati discriminatori. Il pericolo è che potenti multinazionali, difese da eserciti di avvocati, possano intimidire piccoli Stati, o perfino Regioni e Comuni, per far valere i propri interessi”. Ma, detto questo, sbaglieremmo se facessimo credere che il problema sia la carne piena di ormoni che forse importeremo dagli Stati Uniti oppure i vini italiani copiati oltreoceano o gli standard di sicurezza sui prodotti meccanici. Sarebbe fumo negli occhi utile soltanto a nascondere la questione fondamentale, che è l’accordo in sé: volete oppure no un ulteriore passo avanti verso il mercato unico globale? Il punto è tutto qua e c’è poco da focalizzarsi sulle questioni tecniche e sugli accordi che l’Ue saprà raggiungere. In ogni caso, una volta raggiunti questi accordi, le barriere commerciali ancora esistenti non esisteranno più e questa area enorme di libero scambio includerà economie che pesano per circa la metà del Pil mondiale. Cosa vuol dire, in parole semplici? Ebbene, per spiegarlo, non c’è bisogno né di concetti difficili, né di partire da lontano, dai mestieri scomparsi perché sostituiti dai prezzi più convenienti della fabbricazione in serie in ogni campo, seppur anche questo rappresenti un anello dello stesso meccanismo. Basterà invece far caso alla realtà che vi circonda.

Ad esempio, avete presente il cinema della vostra città che ha chiuso per la concorrenza insostenibile del multisala? Avete presente il negozio di generi alimentari che ha chiuso perché non reggeva il confronto con le grandi catene di supermercati? Avete presente quei campi incolti perché gli agrumi non viene più raccoglierli dal momento che importarli costa meno grazie ai vantaggi di una manodopera più economica altrove? O gli appalti per i servizi pubblici della vostra città, che ormai sono quasi sempre in mano a qualche multinazionale specializzata? Ricordate, insomma, l’economia locale, territoriale, fatta di piccola iniziativa privata e vantaggi da un punto di vista anche qualitativo? Ecco, è esattamente quel tipo di economia e di realtà – caratteristica, peraltro, del tessuto produttivo italiano – che un mercato sempre più grande tende a far sparire. E con il Ttip, chiaramente, le cose non possono che peggiorare in tal senso. Come in una vasca in cui i pesci sono sempre più grandi, non c’è speranza per i pesci piccoli in una vasca dove gli squali fanno razzia di tutto. E nonostante ci siano i numeri a confermarlo, basterebbe ragionare per capirlo. Anzi, proprio ragionare sulle cose, forse, potrebbe essere utile a sfuggire alla propaganda che vi riempie di numeri e stime sulla crescita. Il Pil aumenterà. Pare dello 0,5% su scala europea. Probabile. Ma di chi saranno i profitti? Si prevede che le esportazioni statunitense aumenteranno, più di quelle europee. Ma ancora una volta, ricordiamo il punto: vasca grande, pesci grandi. Come sempre di più accade sotto i nostri occhi, il mercato globale tende a trasformarci tutti in dipendenti di colossi economici spesso multinazionali, uccidendo l’iniziativa realmente “privata” in nome dell’economia di scala. E lo fa in nome di parole eleganti e “futuristiche” come efficienza, produttività, libero scambio. Un’efficienza ed una produttività, appunto, talmente alta che soltanto poche grandi aziende possono garantire, riducendo il libero scambio ad un club per pochi. Quando le trattative saranno concluse, i parlamenti dei 28 paesi coinvolti dovranno ratificare il trattato: siete sicuri di aver votato le persone giuste per fermare tutto questo? In caso contrario, la prossima volta che una grossa impresa delocalizzerà e licenzierà, la prossima volta che un piccolo esercizio commerciale chiuderà strozzato dalla concorrenza del grande magazzino, quando vi verrà in mente di aprire un’attività e vi renderete conto che quella libertà di farlo è solo teorica, ricordatevi che un po’ di colpa ce l’avete anche voi.

Fonte: il primato nazionale

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